Contrasse l’epatite C in seguito a una trasfusione di sangue e morì di cirrosi epatica. Dopo quasi vent’anni di processi e ricorsi, una sentenza della Corte di Cassazione stabilisce che quello del militare napoletano, deceduto nel 2005 per le conseguenze del virus contratto durante una trasfusione, è un caso di malasanità e riconosce ai familiari della vittima il diritto a un risarcimento di un milione di euro. «Una sentenza epocale», dicono gli avvocati che hanno rappresentato gli eredi del militare napoletano nella lunga battaglia giudiziaria.
«Ribaltando le sentenze di primo e secondo grado che avevano ritenuto prescritto il diritto al risarcimento del danno, la Cassazione ha condannato l’ospedale Piemonte e Regina Margherita di Messina al risarcimento dei danni per una grave patologia epatica evoluta a seguito di un intervento chirurgico.
Quella al centro di questo processo è una storia iniziata nel lontano 1980. All’epoca la vittima, originaria di Napoli, era un giovane militare di stanza in Sicilia. Durante un’attività di servizio ebbe un incidente e si procurò una ferita tanto profonda da richiedere un intervento chirurgico d'urgenza per la rimozione di una parte del colon e quattro trasfusioni di sangue. Negli anni Ottanta i controlli sulle sacche di sangue seguivano procedure diverse da quelle attuali ma, secondo quanto sostenuto dagli avvocati che hanno rappresentato i familiari della vittima, avrebbero dovuto comunque garantire standard di sicurezza anche in casi di urgenza come quello del paziente napoletano. Fatto sta che circa vent’anni dopo quelle trasfusioni il militare cominciò ad avere i sintomi clinici dell’infezione da HCV (epatite), con un progressivo aggravamento della patologia fino al decesso avvenuto nel 2005.
Dopo il riconoscimento dell'indennità prevista dalla legge per i soggetti colpiti da sangue infetto (Legge 210/1992), il danneggiato e successivamente i suoi eredi intrapresero una battaglia legale per chiedere giustizia. Una battaglia lunghissima, definita da questa sentenza della Cassazione. «Nonostante le precedenti decisioni sfavorevoli del Tribunale di Palermo e della Corte d’Appello che ritenevano prescritto il diritto al risarcimento, la Corte di Cassazione - spiegano gli avvocati della famiglia della vittima - ha ribaltato tali sentenze, riconoscendo la non prescrizione del diritto al risarcimento dei danni. Secondo la Corte di Cassazione, nella presenza di danni lungolatenti come quello in questione, la prescrizione non decorre dal momento del fatto lesivo, ma dal momento in cui si manifesta la patologia, collegata a un fatto illecito portatore di responsabilità».